Memorie agonistiche

Guia Cortassa
7 min readFeb 5, 2015
ALFREDO JAAR
Cultura = Capitale, 2012. Courtesy Galleria Lia Rumma.

Chantal Mouffe, la post-politica, lo spazio pubblico e la necessità di (ant)agonismo nell’arte.

[Nel lontano 2011 ho incontrato la politologa belga Chantal Mouffe a Torino, su invito di una rivista d’arte. Abbiamo parlato di arte e teoria politica in una lunga intervista che al tempo non fu però pubblicata e che ripropongo qui.]

GC: Che apporto può dare l’arte alla teoria politica?
CM: La riflessione teoretica sull’arte, l’estetica, può fortemente arricchire la teoria politica. Ci può essere una collaborazione molto produttiva tra teorici dell’arte e teorici politici; ma anche tra artisti e politici, si può filtrare una grande conoscenza da queste pratiche. Alcune ricerche artistiche sono molto orientate alla politica, e possono essere utili sia per i teorici, sia per i politici stessi; quando la politica vuole entrare a contatto con la gente in modo partecipativo, dovrebbe guardare a ciò che avviene nel mondo artistico e culturale.

GC: Ha parlato di teorici, ma in questo momento storico mi sembra che nell’arte si sia persa la teoria a favore della pratica. Non c’è più un senso astratto, i teorici adesso hanno un approccio molto pratico alla materia (mi riferisco per esempio a Hans-Ulrich Obrist).
CM: Io infatti, onestamente, non considero Obrist come un teorico, ma come un curatore. Non penso che condurre delle interviste possa essere considerato fare teoria.

GC: Esatto, la figura del teorico è stata sostituita da quella del curatore.
CM: È vero che al momento manca un determinato tipo di teoria dell’arte, ma non mancano i teorici, per esempio Jacques Rancière. Certi curatori sono anche teorici e scrittori, come Daniel Birnbaum; il ruolo del curatore è ancora abbastanza nuovo e dibattuto. Alcuni “professionisti”, direttori di museo, stanno avanzando delle riflessioni critiche molto interessanti: per esempio Manuel Borja-Villel, che al MACBA e al Reina Sofia ha portato avanti un discorso fortemente teoretico; o in Slovenia la direttrice del Moderna Galerija di Lubiana, Zdenka Badovinac, ottima saggista museologa; o Nicolas Bourriaud. È interessante che al momento chi scrive di arte sia direttamente coinvolto nell’arte stessa, non persone che guardano dall’esterno. Quindi, non direi che non ci siano più teorici, ma che ora ci sono più implicazioni tra la teoria e la pratica.

GC: Invece per quanto riguarda la politica, mi sembra che ci sia una forte separazione tra teorici e professionisti. Mi sembra che il dibattito culturale politico sia abbastanza distante poi dalla pratica.
CM: Sì, questo è vero: in Europa, e soprattutto qui in Italia, le condizioni politiche non sono molto favorevoli. È la manifestazione di quello che chiamo zeitgeist “post-politico”: oggi, per me, non esiste più una “vera” politica; quello che manca davvero è un approccio “agonistico”. La politica vera esiste quando c’è un confronto tra progetti egemonici, quando ci sono alternative; nella nostra condizione post-politica questo non succede.

GC: Quindi, in un certo senso, il modo in cui si è evoluto il dibattito artistico è più vicino alla sua teoria politica di quanto non abbia fatto la politica vera e propria.
CM: Sì, penso anche che al momento ci sia più politica nel mondo artistico e culturale, che in quello prettamente politico. È molto positivo, ed è il motivo per cui trovo il coinvolgimento nell’arte particolarmente gratificante. Una conseguenza negativa, è, invece, che alcuni pensano che l’arte possa sostituire la politica, e che sia sufficiente essere impegnati in pratiche artistiche o culturali per cambiare il mondo, per combattere il neo-liberalismo. In questa lotta culturale egemonistica l’arte può giocare un ruolo importante, ma questa dimensione da sola non può rimpiazzare la politica; i partiti, i sindacati, le forze politiche devono lavorare in sinergia per portare avanti le proprie differenti lotte, e se ciò al momento non succede, la responsabilità non è di chi lavora nel mondo della cultura. Se chi lavora in ambito culturale crede davvero di poter cambiare le condizioni politiche, deve rendersi contro che oltre alle proprie pratiche artistiche deve essere coinvolto il mondo strettamente politico.

GC: Sempre di più, negli ultimi tempi, gli artisti utilizzano un’iconografia legata ai totalitarismi, cercando di creare delle opere di rottura, che facciano pensare a cosa è successo in passato, ma che poi finiscono per essere operazioni estetiche più che critiche.
CM: Gli artisti pensano che questo sia un approccio altamente critico; io lo trovo un po’ naif e infantile, invece, perché è solo una denuncia, una provocazione, e non penso che possa veramente portare a una consapevolezza politica. Queste non sono assolutamente le pratiche artistiche che chiamerei critiche, nel senso veicolanti ciò che intendo come condizione agonistica, non mostrano una complessità, non fanno pensare, non c’è niente di cui poter dibattere.

GC: Ha sostenuto l’inutilità dell’arte commemorativa, auspicando la fine dei monumenti celebrativi a favore di un’arte pubblica che crei dissenso. Mi è venuta in mente l’ultima Biennale di Carrara, intitolata “Post-Monument”, il cui scopo, nelle intenzioni del curatore, era proprio questo. Ma poi, in mostra, c’era la tomba monumentale in marmo per Bettino Craxi di Maurizio Cattelan, o le feci enormi di Paul McCarthy, o ancora i frammenti dei resti di Ground Zero di Cyprien Gaillard, e poi una grande sezione dedicata all’architettura, come se i nuovi portatori del messaggio dell’arte monumentale dovessero essere le Archistar.
CM: L’arte monumentale può essere agonistica, ma non nella sua forma tradizionale. Penso a Krzysztof Wodiczko e al suo Hiroshima Projection, per ricordarne il bombardamento: un video, proiettato sull’unico edificio sopravvissuto all’atomica, con diverse paia mani che si muovono, appartenenti a persone legate alla storia della città, provenienti da diverse nazioni, tutte toccate dalla vicenda. Questo è un modo per commemorare cogliendo l’opportunità di creare ciò che lui chiama “Memoria agonistica”. Un altro esempio è il monumento di Rachel Whiteread, in Judenplatz a Vienna, in cui ha cercato di accostare una commemorazione e una dimensione critica.

“Rachel Whiteread, Wien Holocaust Mahnmal, Wien, Judenplatz”. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons

GC: Parlando di questa cosa, mi è venuta in mente la differenza, a Berlino, tra il Museo Ebraico di Daniel Libeskind, basato sulla spettacolarizzazione, e il Memoriale della Shoah, invece molto critico.
CM: Sì, anche il Memoriale della Shoah a Berlino è una rievocazione resa da uno spazio fortemente critico. È un esempio lampante di come possano essere diverse le forme di arte commemorativa.

GC: Ha indicato William Kentridge e Alfredo Jaar come i due artisti che più riescono a lavorare in questa forma agonistica. Pensa che sia particolarmente significativo che entrambi provengano da paesi in via di sviluppo, come il Sud Africa e il Cile?
CM: Non stabilirei una relazione così deterministica, ma probabilmente sì. Il contesto in cui ti formi crea la differenza: Kentridge ha un background di studi politici, che rendono probabilmente più critico il suo approccio; Jaar è un architetto, cresciuto nella Martinica; aggiungo anche Francis Alÿs, che vive in Messico. Essere a contatto con questo tipo di situazione politica ed economica è certamente un elemento che può portare una certa coscienza critica, una voglia di reagire, di combattere la compiacenza che si può trovare in alcune forme d’arte, il cui solo scopo è di creare un nome.

GC: Un’altra occasione in cui questo approccio agonistico potrà trovare una realizzazione è la prossima Biennale di Berlino. Il curatore Artur Żmijewski ha infatti lanciato una open call agli artisti, e il requisito per partecipare è dichiarare esplicitamente il proprio orientamento politico, aggiungendo che la richiesta “non significa che la scelta curatoriale sarà basata su un orientamento politico preferito — no, sarà basata come sempre sull’intuizione e l’ambiguità…”. Pensa che potrà essere possibile la sua realizzazione, senza influenze della dichiarazione politica degli artisti?
CM: Io spero che sia in grado di farlo, perché non sarebbe affatto agonistico se la scelta cadesse su persone tutte con lo stesso orientamento. È una mossa stimolante, perché nello scenario post-politico in cui viviamo, prendere una posizione è già uno sforzo; certamente è anche molto importante che sia stato chiarito che quella posizione non sarà un criterio di scelta. Molto spesso nelle Biennali si trova molta arte di denuncia ovvia, che in quel contesto risulta un po’ come ‘predicare ai convertiti’, si muove tutto su un consenso, su una buona coscienza: non è agonistico, è tutto molto “criticamente corretto”. Se vuoi creare un momento agonistico, devi avere un’opposizione.

GC: Sarebbe un’opportunità per creare quello che lei chiama “spazio pubblico”, per dibattere.
CM: In generale, trovo che sia vero che il mondo dell’arte, i musei, le biennali si siano molto commercializzate, quindi alcuni hanno ragione ad affermare che certe pratiche artistiche non siano critiche. Credo invece che all’interno dei musei e delle biennali sia veramente possibile fare una “guerra di posizione”, bisogna solo provare a occupare terreno, non andarsene, non emigrare da queste cose ma cercare di entrarci. Certi musei ci stanno provando: il Reina Sofia, il Macba, il Van Abbemuseum di Eindhoven, il Moderna Galerija di Lubiana; ed è lo stesso per le biennali, è una possibilità che stanno cercando di sfruttare: per esempio, la prima Biennale di Bruxelles, curata da Barbara Vanderlinden, ha cercato di coinvolgere edifici particolarmente importanti nella città, per creare una coscienza critica su cosa stesse succedendo riguardo allo sviluppo urbano, all’edificazione. Si può benissimo usare una biennale per creare un intervento agonistico.

GC: Questo potrebbe essere il motivo per cui le biennali negli ultimi tempi sono diventate sempre più numerose, soprattutto nei paesi dell’est Europa, insieme alla necessità di creare un dibattito culturale “indipendente”, non strettamente legato a istituzioni come i musei.
CM: Sì, per esempio la Biennale di Istanbul è stata molto interessante per il suo essere concepita non puramente turistica, ma politicamente. È giusto che si crei una molteplicità di spazi pubblici per dibattere. Pubblici non come proprietà né come geografia, ma proprio come relazione con i partecipanti.

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Guia Cortassa

Milan-based editor and translator for several international publishers, and writer for international magazines focusing on art, music, and literature. ko-fi.com