Kintsugi

Guia Cortassa
5 min readMar 2, 2020

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Questo racconto è uscito su Abbiamo le prove nel maggio 2015

“Quella sera arriverai tardi e io sarò lì ad aspettarti, con il mio vestito nero e la bicicletta verde.
Sarò impaziente dei tuoi baci in una stanza senza finestre e senza ossigeno, in cui neanche si accendono le sigarette.
Poi, finalmente, andremo a casa e faremo l’amore.”

Poche righe scritte a macchina, un foglietto bianco attaccato alla vecchia fotocopia di una cartina del mio quartiere. Te l’ho dato dopo che quello che raccontavo era già successo, perché tu non te ne dimenticassi.

Tornare, in quel momento, era ancora un pensiero distante, e tre mesi prima eri stato proprio tu ad accompagnarmi all’aeroporto, quando avevo deciso di andarmene.

Doveva essere l’anno del mio Kintsugi, quello in cui avrei ricoperto d’oro e d’argento tutte le crepe e le cicatrici lasciate dall’estate prima. Avevo accolto i mesi più freddi cercando di rimettere insieme i cocci di rapporti mandati in frantumi da altre persone e ora, per me, il metallo prezioso doveva essere il distacco, l’esatto contrario del suo significato originario: allontanarsi, ricominciare, dimostrare di potercela fare.

A quel tempo pensavo ancora di fare la curatrice. Non ne ero mai stata convinta ma, pian piano, la frequentazione dei miei colleghi mi aveva in qualche modo fatto credere che fosse necessario; non so bene perché, ma per tutti sembrava impossibile potersi dedicare solo alla scrittura. Al lavoro con gli artisti, alle mostre, però, io continuavo a preferire le parole. Così, quando l’unica persona insieme a cui non mi sentivo completamente persa in quel mondo — quello dell’arte, di cui sapevo bene di non far parte e che a sua volta non faceva nulla per persuadermi del contrario — aveva scelto di partire, la paura di rimanere sola e l’inadeguatezza erano stati gli ultimi due sentimenti necessari a spingermi a prendere la sua stessa decisione.

Avrei potuto continuare a chiamarlo “un periodo di residenza di ricerca da qualche parte”, ma la verità è che stavo in qualche modo scappando. Da cosa? Dal più grande stereotipo dell’esistenza umana: sentirsi ingabbiati in una vita in cui non ci si riconosce, nel mio caso senza ancora aver compiuto trent’anni. Dove? La destinazione l’aveva decisa il caso, sotto forma di lettera di accettazione a uno dei programmi a cui avevo applicato. Berlino; forse l’ultima città che avrei scelto io. Che non sapessi il tedesco, che non conoscessi la città se non per qualche sporadico weekend trascorso tra la Porta di Brandeburgo e il KaDeWe, erano particolari del tutto senza consistenza nella mia testa, in quel momento. L’importante era partire. E il 2 marzo 2011 sono atterrata all’aeroporto di Schönefeld senza avere un biglietto di ritorno nella borsa.

Sono quasi sicura che, quando sei arrivato, in quella notte di fine maggio, non ti saresti mai aspettato di andare a ballare. Ti sono venuta a prendere alla fermata della metropolitana che era mezzanotte passata. Indossavo un vestitino leggero, nero a pois bianchi — io, che ho passato la mia vita barricata in jeans e Dr. Martens — che svolazzava all’aria delle notti primaverili. Avevo perso sette chili e tagliato i capelli corti. “Giusto il tempo di portare la valigia a casa, ché ci aspettano” — parole che per te stavano uscendo dalla bocca della persona che, di solito, passava le serate annoiata e stanca sul divano, davanti al computer. Abbiamo passato la notte a ballare in una discoteca clandestina, allestita in una delle cantine di un palazzo, affollata e senza finestre, in cui quell’accendino che pensavamo scarico non si accendeva in realtà per la mancanza di ossigeno nell’aria. Siamo tornati a casa a piedi alle 5 del mattino, camminando in una città in cui la notte non è mai buia, e per tutta la giornata seguente non abbiamo lasciato la mia stanza, quella dalle pareti bianche, con il letto di ferro battuto nero proprio sotto alla finestra che si affacciava sul parco. Abbiamo giocato a badminton a Tempelhof e ho appeso alla parete la foto della tua valigia pronta per il ritorno, con dentro anche la racchetta che ti avevo regalato per l’occasione.

Anche dopo che eri tornato in Italia, ti ho convinto a prendere i biglietti per uno di quei festival musicali inglesi in cui si campeggia nel fango. Ti raccontavo di tutti i concerti a cui riuscivo ad andare, pedalando con le gambe nude lungo la Maybachufer; delle giornate trascorse a sfogliare mille libri nella mia libreria preferita; di come lì fosse possibile scrivere d’arte, sperimentare critica e narrativa allo stesso tempo, proprio come avevo sempre desiderato; di come stessi curando una mostra che raccontava di fantascienza e astrofisica ma anche di cinema.

Poi, una sera, ti ho chiesto di cercarmi un volo per Milano.

La residenza era terminata da un po’ e, a poco a poco, tutte le persone con cui avevo condiviso quell’esilio dorato stavano tornando nei paesi d’origine. Anche Caterina, con cui avevo vissuto in simbiosi per quei quattro mesi di primavera, era ormai tornata in Italia. Tutti bene o male avevano fatto ritorno a casa almeno una volta, per Pasqua o per qualche altra ricorrenza. Io, che a Pasqua ero a una grigliata in un parco pubblico in mezzo a un gruppo di nudisti, da quella sera di marzo, mi ero voluta dimenticare che per me esistesse un altrove. Sì, ogni tanto qualcuno era venuto a trovarmi, ma il gioco era sempre far credere che la mia vita fosse quella e nessun’altra: salutare le persone per strada, conoscere sempre il posto giusto dove andare, ordinare da bere in tedesco, perfino. E ora, cosa ci facevo in quella città da sola?

La sera che sono atterrata a Milano siamo andati a ballare, ma tra le persone e le pareti del Plastic non eravamo a nostro agio come quella volta.

Abbiamo trascorso tre notti in un tenda nelle campagne del Dorset e le giornate tra palchi affollati e partite di ping pong. E poi ancora, nella nebbia del fort de Saint-Père di Saint-Malo, tra la bassa marea e il fango del parterre di un altro festival. Con lo stesso vestito con cui ti ho accolto quella sera ho passato mezz’ora su un vecchio divano di pelle rossa con una delle persone che sognavo di incontrare da sempre, lasciando tutti sbalorditi quando ho rifiutato il suo invito ad uscire in quella notte di mezza estate.

Pochi mesi dopo ho comprato la casa in cui viviamo ora. A Milano, nella città da cui ero scappata meno di un anno prima. La città in cui, per la prima volta in vita mia, avevo sentito il bisogno di tornare.

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Guia Cortassa

Milan-based editor and translator for several international publishers, and writer for international magazines focusing on art, music, and literature. ko-fi.com