Desolazione del povero Millennial sentimentale

Guia Cortassa
6 min readJul 21, 2021

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Ho scritto questo essay nel 2018 e non è mai stato pubblicato. Mi sembrava un peccato lasciarlo lì da solo nel drive.

21 marzo 2017. Siamo solo in trecento alla Zunnehuis di Amsterdam, selezionati casualmente da un algoritmo per poter assistere a uno dei tre “intimate show” acustici che Father John Misty ha in programma in Europa per anticipare la pubblicazione del suo terzo disco, Pure Comedy.

Josh Tillman è da solo sul palco, seduto al pianoforte. Ha appena finito di suonare “Holy Hell” e sta giocherellando con le dita sui tasti, quando, a un certo punto, senza fermarsi, si rivolge direttamente il pubblico: «Questo è un pezzo nuovo, ve lo chiedo per favore, non riprendetelo, perché vorrei davvero usarlo più avanti. Siamo d’accordo?» L’idiosincrasia del cantautore americano per l’uso degli smartphone durante i concerti è nota, ma nessuna ironia traspare, stavolta, dalle sue parole. Per tutta la sera, anzi, non c’è stata traccia degli eccessi melodrammatici tipici dei suoi live: nessun commento sarcastico, niente danze sfrenate, luci o scenografie.

Seduti, in silenzio, nell’edificio del 1932, stiamo per ascoltare, ignari, un embrione di “We’re Only People (And There’s Not Much Anyone Can Do About That)”, il brano scelto per chiudere il quarto — inaspettato — album del cantautore americano, God’s Favorite Customer, uscito lo scorso primo giugno, a poco più di un anno di distanza da quella serata e dal lavoro precedente.

“People, we’re only people
There’s not much anyone can do, really do about that
But it hasn’t stopped us yet
People, we know so little about ourselves
But just enough to wanna be nearly anybody else
How does that add up?”

“Disappointing diamonds are the rarest of them all
And a love that lasts forever really can’t be that special
Sure we know our roles, and how it’s supposed to go
Does everybody have to be the greatest story ever told?”

(“Disappointing Diamonds Are the Rarest of Them All”)

“Misadventure”, “disavventura”. Josh Tillman usa questa parola per descrivere ciò che ha portato alla scrittura di God’s Favorite Customer. Due mesi trascorsi vivendo in una stanza d’albergo, le difficoltà con la propria salute mentale, l’ennesima spirale di abusi di sostanze e la brutale necessità di affrontare l’umana caducità delle relazioni sentimentali, così diverse dall’amore eterno che vive da sempre nelle canzoni. Un cuore spezzato, soprattutto. Poi, un viaggio a New York per lavorare con Adam Green, l’incontro con Jonathan Rado, e la possibilità di dare una forma concreta a quelle sei settimane di parole che sgorgavano incessanti dalla mente del cantautore ferito. “Disavventura” sarebbe una definizione riduttiva per chiunque si fosse trovato in quella situazione, se a usarla, poi, è un artista abituato ad accompagnare ogni sua mossa con una sovrabbondanza incontenibile di apparati paratestuali, l’understatement diventa ancora più evidente. Dove una volta c’erano romanzi (“Mostly Hypothetical Mountains”, diventato poi le liner notes di Fear Fun), autobiografie (“Biographical Copy — Draft #12”, a introdurre I Love You, Honeybear), istruzioni ed esercizi per l’ascolto (“Supplimentary Content: Instructions for Listening” sempre per I Love You, Honeybear) e una miriade di video, dichiarazioni e interazioni per lo più inopportune sui social media, ora c’è solo una laconica dichiarazione, rilasciata a Uncut, e una parola chiave. “Misadventure”.

“What would it sound like if you were the songwriter
And you did your living around me?
Would you undress me repeatedly in public
To show how very noble and naked you can be?”

(“The Songwriter”)

Avrei voluto che questo fosse un racconto autobiografico. Un’inutile narrazione di come, nel tempo, ho sviluppato una sorta di ossessione, spinta da un’ipotetica e irrazionale identificazione, per Father John Misty, e per la sua vita, del tutto estranea alla mia, eppure così perfettamente parallela; di come, quel 21 marzo 2017, non potessi immaginare che le mareggiate che si stavano abbattendo, all’insaputa di tutti, sull’esistenza del trentacinquenne del Maryland, sarebbero arrivate di lì a breve a portare lo stesso rovinoso scompiglio nella mia; di come mi sia bastato sentire una volta le parole “How was I to know/ Milk and honey flow/ Just a couple states below?” nel 2012 per desiderare un paio di stivali di vernice nera e un nuovo inizio. Ma se il personal essay è morto, la sua pietra tombale deposta da Jia Tolentino un anno fa sul New Yorker, lasciando gli autori Millennial soli con le proprie muse ispiratrici preferite — egocentrismo e narcisismo –, per i cantautori “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese” rimangono i semi più fertili e necessari per coltivare la propria arte.

Josh Tillman non fa eccezione, anzi. Con l’alter ego Father John Misty a disposizione come copertura e lo scudo dell’ironia sempre pronto dietro cui trincerarsi, Tillman ha fatto dell’autobiografismo più estremo la sua nota di stile. Album dopo album, ha raccontato una crisi esistenziale, un innamoramento feroce, una disillusione nei confronti del mondo contemporaneo e, ora, la disperazione di un cuore infranto. Ma se, all’inizio, capire dove finisse il personaggio e dove iniziasse l’uomo era abbastanza complicato, adesso la maschera è calata. Nonostante nome vero e nome fittizio vengano usati ancora, lo sdoppiamento della personalità si perde, così come lo sguardo sprezzante e la necessità di compensare le proprie insicurezze con un magniloquente complesso di superiorità.

“One more wasted morning
When I could be holding you
To my side, somebody stop this joyless joy ride
I’m feeling older than my thirty-five years”

(“Please Don’t Die”)

Ma rimane l’amore il motore immobile dei dolori del giovane Tillman. Nei suoi sei anni di carriera solista, l’epopea di Josh e Emma si è svelata ai nostri occhi in un ibrido tra un poema cavalleresco e una soap opera di serie B. Raccontata da un narratore autodiegetico, la donna è contemporaneamente l’ispiratrice e destinataria di un moto del cuore umano e nobile, il mezzo verso la salvezza e la conoscenza di sé, e l’oggetto di una passione carnale e terrena. Tre diversi piani che coesistono e si intersecano fino a perdere i propri confini — “I’ve never done this/ Baby, be gentle/ It’s my first time/ I’ve got you inside” scrive il cantautore, ammettendo la sua verginità affettiva, per poi svelare che “[…] my baby, she does something way more impressive than the Georgia Crawl/ She blackens pages like a Russian romantic/ Gets down more often than a blowup doll” e, infine, ammettere che “Now, in just one year’s time/ I’ve become jealous, rail-thin, prone to paranoia when I’m stoned/ If this isn’t true love, someone oughta put me in a home”. Tutte citazioni che provengono da I Love You, Honeybear, un album interamente dedicato all’epica della relazione tra il musicista e la sua musa, che svela un attaccamento quasi monomaniaco dell’autore verso la compagna. Roboante, pieno, sovrabbondante, I Love You, Honeybear è il ritratto di un uomo che implode, spinto dai sentimenti che non riesce a esprimere.

“But I’m just dumb enough to try
To keep you in my life
For a little while longer
And I’m insane enough to think
I’m gonna get out with my skin
And start my life again”

(“Just Dumb Enough to Try”)

Il crollo delle certezze, per Josh Tillman, è servito — al punto tale da mettere il proprio viso in primo piano nella copertina di God’s Favorite Customer. Il «Vero “Honeybear”, quello senza cinismo». Il primo album in cui Father John Misty non appare come parte attiva nella narrazione e in cui Josh Tillman non è solo un personaggio. Quello in cui la desolazione sentimentale appare in tutta la sua vulnerabilità, e l’ironia non è più un’arma di difesa ma di liberazione. Quello in cui l’uomo entra in contatto con il proprio sé, al punto da domandarsi come si troverebbe il partner al suo posto. Un disco che vive del silenzio che lo circonda e che trova la sua forza in quello che contiene, senza bisogno di interventi e giustificazioni ulteriori.

«Credo di aver pensato, istintivamente, che se avessi mandato tutto all’aria, avrei potuto poi ricostruire tutto meglio di come fosse prima».

Chi non l’ha fatto, almeno una volta, nella vita? La buona notizia è che, almeno per una persona, sembrerebbe aver funzionato.

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Guia Cortassa

Milan-based editor and translator for several international publishers, and writer for international magazines focusing on art, music, and literature. ko-fi.com