45°22’36”N 9°13’19.3”E

Guia Cortassa
6 min readMar 6, 2020

--

Questo racconto è parte di Strade, una raccolta di personal essay che raccontano il luogo in cui si è cresciuti, curata e pubblicata da Gabriele Ferraresi nel 2018.

Una giacca a vento pesante, grigia. Un paio di pantaloni imbottiti rosa; muffole e cappello dello stesso colore, anche se il cappuccio del giubbotto copre quasi interamente il berretto impermeabile, a eccezione della visiera. Ai piedi, un paio di minuscoli sci, rossi, di plastica; i bastoncini tra le mani, appoggiati davanti a me, come se fossi ferma al traguardo di una discesa di coppa del mondo, lo sguardo soddisfatto.
La strada e il marciapiede sono imbiancati da uno spesso strato di neve, così come il giardinetto della casa sullo sfondo, il suo tetto, e i rami della grande conifera che occupa l’angolo più a destra del terreno.
Ma non sono in montagna. E non è la grande nevicata del 1985: in quella foto non ho solo tre anni. Potrebbe essere l’anno successivo — il retro della stampa è bianco, nessuno ha segnato la data. Di riportare il luogo in cui è stata scattata, invece, non c’era alcun bisogno: la targa metallica, avvitata al cancello alle mie spalle, è ben leggibile, sebbene la mia testa nasconda l’iniziale del toponimo. Via dei Pioppi. Se fosse su una busta da affrancare, l’indirizzo continuerebbe con 20090 — Opera (Mi).
Ho varcato la soglia di quelle sbarre dipinte di rosso al numero civico 2 quasi tutti i giorni, per buona parte della mia infanzia. Era la casa della “nonna” G., una delle migliori amiche della mia (vera) nonna. Una villa anni Sessanta, molto grande, di cui conoscevo solo una stanza — la cucina, che ci accoglieva a ogni visita; G. con addosso il suo grembiule, il rossetto rosso sulle labbra e le meches bionde nei capelli, corti, sempre perfettamente in ordine.

Non si arriva per caso in via dei Pioppi: persino in un centro abitato di ridotte dimensioni dell’hinterland milanese, come Opera negli anni Ottanta, era lontana dalla serendipità delle scoperte che offrono le passeggiate sovrappensiero in paese. Era, ed è tuttora, la strada che segna il confine sud del quadrilatero del quartiere Zerbo, uno di quei luoghi in cui ci si ritrova solo per scelta o per errore; una “città satellite”, un’enclave di strade senza nessun servizio essenziale ma elegantemente composte da file ordinate di edifici bassi, sorti silenziosamente tra il Boom economico e gli anni di piombo, e pronti a trasformarsi in un immacolato microcosmo suburbano con l’avvento del decennio dell’edonismo, in una località di campagna già resa deforme dall’aumento smisurato della popolazione.

In quest’altra foto, invece, sta piovendo. Ho in mano un ombrellino rosso e indosso una tuta imbottita diversa, verde e scozzese, ingombrante. Il cordoncino del cappuccio completamente stretto lascia intravedere solo l’essenziale del viso sorridente, che quasi scompare nella massa imponente dei materiali invernali degli anni Ottanta — un volume reso ancora più accentuato dall’elastico dei pantaloni alle caviglie, da cui spuntano delle scarpine da tennis di pelle bianca. Anche qui sono in piedi, sul marciapiede. Alla mia sinistra, ci sono le greche geometriche del cancello marrone che ho aperto e chiuso quotidianamente per ventisei anni: quello di via dei Pioppi, 15. Un’altra villa anni Sessanta; un altro giardino su cui regnava, maestoso, un cedro del libano quasi secolare; un’altra facciata di fatta di bugne, legno e mattoncini di klinker semilucido.
Intorno a me lo scenario urbano è deserto: non ci sono auto né passanti, solo gli alberi che spuntano dalle aiuole in mezzo ai passaggi pedonali — che, paradossalmente, pioppi non erano — e dai giardini, bagnati dall’acquazzone, e le pozzanghere su cui si vedono rimbalzare le gocce. Sono più piccola che nella foto precedente, e la strada che mi circonda sembra aprirsi a distanze e dimensioni ben più ampie di quanto la realtà, poi, possa permettere davvero.

Da Milano, bisogna imboccare via Ripamonti verso sud, per dirigersi in via dei Pioppi. Al limite dell’area urbana, in corrispondenza di Noverasco, frazione di Opera, la Ripamonti si trasforma nella SP ex SS 412 della Valtidone. Superata la tangenziale Ovest in corrispondenza dello svincolo 8, si percorre ancora un breve tratto, fino all’uscita Opera Zona industriale 1 (Km 2,000), realizzata all’inizio degli anni Ottanta come by-pass della vecchia strada statale — che tagliava a metà il centro del paese –, anche per aiutare lo scorrimento dei mezzi pesanti che avrebbero cominciato a raggiungere la nuova zona industriale operese. Da lì, giunti alla rotatoria, la seconda uscita immette su via della Madonnina, alla fine di cui, sulla sinistra, si apre il senso unico della nostra destinazione.

Quando sono arrivata io, il paesaggio era già questo: la casa della nonna G., con la targa del nome della via, sulla destra; le inquietanti tenebre di una siepe altissima e impenetrabile a cingere una villa che non sono mai riuscita a scorgere oltre la vegetazione, sull’angolo di sinistra. Poi, sullo stesso marciapiede, il bar, dapprima un piccolo ritrovo di quartiere, poi un vero e proprio pub frequentato da ragazzi in motorino, con grande disappunto di tutti gli abitanti del circondario; la casa della magliaia, la signora C.; la casa della Ballerina, una bizzarra signora di cui ancora oggi non so il vero nome, che abitava insieme ai suoi due yorkshire; la casa della signora C. e il suo cane Argo, vicini di casa dei miei nonni, diventata poi della famiglia U. a metà degli anni Novanta; la casa al numero 15; e, infine, l’angolo dei signori M., una casa bifamigliare con la vasca dei pesci rossi in giardino e un numero di abitanti troppo alto per essere normale ai miei occhi infantili.
Poi, il tratto oltre l’incrocio con via delle Robinie — il mio hic sunt leones; lo stretto di Gibilterra le ville dei signori G. e dei signori M..
Una piccola striscia di edifici ibridi, metà fabbrica, metà abitazione, mostri mitologici tipici dell’iconografia della Pianura Padana, culminanti nel fiore all’occhiello delle attività produttive locali: la Cober, azienda produttrice di attrezzatura sportiva da montagna di rilievo internazionale, da cui provenivano anche i miei sci rossi fiammanti.
Il pezzo di strada meno trafficato era l’unico in cui mi era proibito addentrarmi nei pomeriggi passati sui pattini o in bicicletta: troppo lontano dagli occhi vigili della comunità — la stessa falange di vicini che rumoreggiava sui movimenti sospetti che si concentravano nella cabina telefonica del parcheggio antistante la fabbrica, luogo d’elezione per le coppiette di ragazzini della zona.
Ero la più piccola di tutti i bambini della via, l’unica nipote in un gruppo di figli che già frequentavano le scuole medie quando io dovevo ancora iniziare le elementari. Le ragazze giocavano a pallavolo, mentre si raccontavano cosa volevano fare da grande: la hostess sugli aerei, quasi tutte. Io no. Io volevo fare la ballerina sui pattini — o la giornalista di cronaca nera, a giorni alterni. Irremovibile, nessuna riusciva a convincermi a seguirla nella carriera aeronautica. Era la fine di quelle discussioni agonistiche che segnava il momento di andare a prendere il gelato al bar, per poi mangiarlo sedute su un plaid steso sul prato del giardino del numero 15.

LaLa targa è ancora lì, sulla cancellata rossa. L’arrivo della segnaletica moderna, con i suoi cartelli allungati e il font minuscolo sans serif, non ha toccato la boule de neige di via dei Pioppi. Cammino da sola, sono quasi dieci anni che non tocco quell’asfalto. La siepe che cinge il perimetro della villa sull’angolo di fronte è sempre allerta, nera e minacciosa, gli scooter davanti al pub continuano a rombare nel silenzio irreale della strada. Dalla recinzione della casa della Ballerina spuntano, selvaggi, rami di piante che nessuno pota da più tempo. Sono diventati uno dei motivi di lamentela dei residenti, mi dicono, perché pericolosi: qualcuno, passando distrattamente, potrebbe esserne colpito in un occhio. Su quasi tutte le recinzioni sono appesi i volantini del neighbourhood watching, con i numeri di telefono di vigili e forze dell’ordine a cui segnalare le persone sospette, nel caso se ne scorgessero nel vicinato. Ma in giro non c’è nessuno: la sconosciuta, ora, sono io, nell’immobile impenetrabilità di un quartiere rimasto uguale per cinquant’anni.

Solo al numero 15, le greche marroni di ferro, le bugne, il klinker, il cedro del libano sono spariti, soppiantati dai materiali dinamici di un cubo in bioarchitettura con due piscine, ancora disabitato.

Erano solo delle stupide villette con uno sputo di giardino,
ma sono state la prima cosa da cui sono scappata, quando sono diventata grande.

--

--

Guia Cortassa

Milan-based editor and translator for several international publishers, and writer for international magazines focusing on art, music, and literature. ko-fi.com